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Paolo Radi - Spazi latenti Testo critico a cura di Francesco Tedeschi
Le immagini che un artista genera sono sempre riflesso di un mondo che egli porta in sé e che cerca di rendere visibile. La descrizione del loro aspetto materiale ci porta in contatto con una realtà che è prova del suo pensiero, della sua visione delle cose, ma che riverbera necessariamente delle condizioni di cui il loro autore si fa interprete, vivendo del proprio tempo, recependone determinati caratteri. Sono forse ovvietà, ma di fronte a un lavoro come quello di Paolo Radi, al suo carattere attuale, maturato attraverso una esperienza già abbastanza lunga, di cui le realizzazioni più recenti sviluppano premesse e intenzioni, da una parte ci si può interrogare sul significato immediato e sul ruolo di elaborazioni che si qualificano per la loro presenza sensibile, e dall’altra si è sollecitati a verificare quanto esse riecheggino di una sensazione di immaterialità nella quale sono concepite e in cui siamo immersi. Non si tratta, con questo, di individuare possibili affinità esteriori con un certo design di oggetti che si possono ritrovare nella vita quotidiana, capaci di alludere a quel grado di immaterialità della quale anche molte cose concrete appaiono oggi avvolte, ma di cogliere i risvolti più intimi di una forma di esistenza e di pensiero sospesi, affacciati sull’incompiutezza del reale, come elemento caratterizzante il presente, forse qualsiasi presente, ma più acutamente percepito all’interno di una condizione di “postmodernità” o “ultramodernità” .
Le poetiche dell’indistinto, dell’ineffabile, dell’invisibile, si sono variamente sovrapposte, nel corso del tempo. Nell’arco di alcuni decenni si è passati dalla volontà di affermare posizioni assertive alla necessità di riconoscere come le certezze vengano meno, e i paradigmi della “debolezza” non siano da considerarsi elementi in sé “negativi”. L’incertezza non è un segno di mancanza, un modello perdente, perché la realtà non ammette solo il bianco o il nero, ma si compone di tutte le sfumature del grigio. Nella fattispecie, andare oltre la dimensione del tangibile e del visibile pone lavori come quello di Paolo Radi in una particolare corrispondenza con quelle poetiche dell’indefinito che riguardano non solo il campo della visione, ma quello della struttura stessa delle cose. Questo non avviene in una perdita di “definizione”, ma in un lavoro all’interno della “definizione”. Le sue opere, entrando nel merito, sono andate introiettando quelli che erano o potevano essere i volumi esterni, aggettanti, le protrusioni e le introiezioni complementari dalle quali pure Radi era partito, aprendosi verso nuove e altre profondità, nel corso del tempo, e sono giunte oggi a esplorare situazioni che introducono in una dimensione imprendibile, in cui ci si inoltra senza coglierne le delimitazioni. Al centro del suo lavoro si può dire sia lo spazio o una nozione di spazio che non si rivela mai come dato, e che sempre risente di una virtualità esistente, non fittizia. Come alle origini del processo fotografico si pone il rapporto tra immagine reale e immagine latente, che il negativo fotografico registra, così le opere, particolarmente quelle più recenti e attuali di Radi, si collocano sul versante di una qualificazione di spazio che esse contengono, registrato o immaginato. Questo spazio, questi spazi, come ci dice egli stesso nei suoi scritti - che vengono qui pubblicati per la prima volta in modo antologico -, sono uno dei temi portanti di ogni momento del suo lavoro e dell’evoluzione che esso ha attraversato. Inizialmente proponendosi di invadere l’ambiente esterno, di produrre vere e proprie forme plastiche, installative, che andavano a dialogare con strutture architettoniche e luoghi. Senza perdere l’aspirazione alla volumetria, alla plasticità, gli “spazi latenti” si sono andati poi come imbozzolando, all’interno dei materiali plastici che da alcuni anni costituiscono il volto e la struttura di un lavoro che non vuole qualificarsi in termini tecnici e tecnologici, ma fare di questi materia e strumento per caratterizzare l’opera e l’idea dalla quale essa procede. Quello del rapporto fra uno spazio interno e uno esterno è in realtà tema implicito di tutta la sua storia, componendosi in un dialogo, fra interiorità e immediatezza esteriore, fra “concavo” e “convesso”, che non riguarda solo le condizioni concrete, ma la coincidenza fra una sensazione di luogo e la sua manifestazione. Lo dice chiaramente Radi, in alcuni suoi scritti, che accompagnano e ulteriormente esplicitano le sue creazioni, a cominciare da alcune sue note utili a comprendere le origini del suo fare e che si trovano espresse a proposito delle sue realizzazioni di fine anni Novanta, all’interno dell’analogia “spazio della mente, spazio del corpo” e nel confronto fra la connotazione fisica delle opere nel luogo e la loro qualità di emanazione “corporea”, in cui riconoscersi. I volumi chiusi, le “tasche del tempo”, come verrebbe da nominarle, riconoscibili in alcuni lavori dei primi anni Duemila, possono essere la traduzione visiva di uno stato dell’essere, all’inseguimento di un incontro tra spazio e tempo da sempre indagato e sempre riproponibile all’interno di un processo, più che in un’immagine compiuta. Notava alcuni anni fa Enrico Crispolti come in Radi si possa cogliere “l’introduzione d’una diversa dilatazione temporale attraverso l’insinuarsi appunto d’una spazialità memoriale” . Un tempo che si fa luogo e uno spazio che si fa memoria, si potrebbe altrimenti dire, indicando come lo scambio e l’incontro fra le sensazioni spazio-temporali date in un’opera si traduca in tempo consolidato e percepibile, per quanto sfuggente, imprendibile. Queste forme di coincidenza fra parametri astratti si ritrovano nelle sue realizzazioni da molti anni e già si andavano evidenziando concretamente nei suoi lavori di carattere tridimensionale, che potevano essere letti in relazione a una tradizione di plasticità di confluenza pittorico-scultorea, come poteva essere inteso all’interno della storia della cosiddetta “pittura oggettuale”. In particolare dal 2000 circa tale affinità esteriore si andava producendo con l’introduzione di un materiale plasmabile come il PVC su tavole lignee, secondo una ricerca che in senso formale pareva alludere alla ripresa di modelli di una generazione e una situazione precedente, immersa nella sperimentazione di una nuova idea di forma-quadro. Può essere pleonastico affermare che tale direzione di ricerca e di lettura non può essere quella all’interno della quale ritrovare motivi per comprendere un dialogo tra superficie e aggetto che non è di matrice formale, ma indica altre motivazioni. Ebbe a riconoscerlo implicitamente proprio uno dei protagonisti di quella stagione, protrattasi fino a oggi e fondata sulla volontà di una nuova identità di pittura e spazio, Agostino Bonalumi. In un suo scritto di alcuni anni fa, Bonalumi avverte come alla base di un atteggiamento quale quello di Radi sia da individuare un diverso processo, dove pure il legame tra progetto e materiali è conseguente, ma dove “le cose stanno sospese in un limbo dove ancora non hanno e nemmeno avranno forma, o l’hanno avuta un tempo” . Le forme plastiche di Radi, secondo un’altra traccia di lettura, nel loro consistere, si fondano “sul punto di contatto tra provenienza non attesa e approdo mancato o giunto prima della partenza” ; formula che potrebbe essere variamente riconosciuta nell’“essere tra”, nell’ “in-between” di altra matrice teorica, per delineare la condizione di delicato equilibrio su cui l’opera si inserisce come momento visibile di uno stato di crisi o di superamento. Lo confermano, con le immagini, i titoli ricorrenti, dove il tema della “soglia”, del punto di passaggio fra due realtà, ritorna immediatamente e in modo non forzato.
Per questo, lontano da ogni identificazione con percorsi come quelli di una tradizione di pittura oggettuale, la sua elaborazione di una nuova condizione di “immagine latente” si rivela in un’interiorità resa attraverso motivi sensibili, aprendosi su una notazione di spazio introiettato, fatto di luci, sagome e motivi da esplorare con la mente, oltre che con le operazioni retiniche di un’impossibile messa a fuoco. Quella relazione di coincidenza e quasi di sovrapposizione fra opera e poetica, che in modo diverso si verifica o si rende chiave di lettura valida e appropriata a seconda dei singoli autori, può nel suo caso rinvenirsi nella corrispondenza fra alcuni aspetti della sua riflessione e delle ragioni su cui si fonda, e il suo stesso concretizzarsi. Una poetica dell’“incertezza” (“io non ho certezze”, dice in un suo scritto Radi, quasi confessando di far parte di un mondo e di un modo di pensare), e delle sfumature che vanno a qualificare l’“indistinto” in cui si muove un percorso che dalla visione si trasmette all’emozione, produce corrispondenze con stati di passaggio che si collocano metaforicamente in un tempo prima delle origini o dopo la fine, o in un luogo mentale ed esterno ai confini del visibile. Radi accenna, in uno scritto del periodo in cui è andato definendo la sua maniera ancora attuale, al “necessario indistinto”, con un ricorso ai termini che rendono obliqua ogni affermazione di certezza; l’“invisibile”, l’“indefinito”, l’“indistinto” sono tutti aggettivi-sostantivi che ci conducono davanti a un filtro della visione e dell’oggettività . Tale stato è percepibile come condizione di una parzialità, più che di una negazione, per cui la parola chiave individuata dall’autore per dichiarare il carattere e il significato del suo lavoro può essere quell’“intravedere”, come accettazione di una visione che non può darsi nella sua immediatezza. Le sue opere presentano momenti di convergenza con quelle immagini del “mondo prima del mondo” o del “mondo dopo la fine del mondo”, che affollano le fantasie di certa letteratura e di certa cinematografia, andando a rivelare originali parentele, come quelle con certo de Chirico, indicate da Lorenzo Canova, che valgono nel riconoscere, nei “segni” dei quadri di de Chirico degli anni Dieci, lo stato primario e imprendibile delle cose, di quei “demoni” che abitano gli oggetti. Conclude Canova, a proposito di Radi, riconoscendo ai suoi lavori una affinità con la malinconia metafisica nel rispondere alla temporalità con un’uscita dai tempi e dai modi dell’effimero, “nella spiazzante e indefinita incertezza di una visione sospesa fra la materia del mondo e della vita e la presenza immateriale di un’immagine o di un corpo che ritornano dopo essere svaniti senza rimedio nel flusso veloce e inesorabile del tempo e dell’esistenza”.
Ed eccoci allora al presente della sua opera, che si configura secondo alcune categorie formali e alcuni procedimenti individuabili all’interno di una logica dell’incertezza, ma anche della necessità di un andare oltre le parvenze. Essa si configura in realizzazioni che si avvalgono di materiali moderni, aggiornati, ma per trovare in essi analogie con processi della visione; che comprendono rappresentazioni pienamente luminose e quasi diafane, aeree, e altre in cui le luci interiori sbalzano nell’oscurità e dall’oscurità. Lavori che stanno a parete, alludendo alla sostanza del quadro-finestra di una lunga tradizione dell’immagine, ma che possono caratterizzarsi anche per una frattura della cornice e del limite visivo, fino ad avere presenza tridimensionale, di oggetto o scultura, come nei “sacelli” che intercettano, più di altre sue opere, quella vena “sacrale” implicitamente riconosciutagli da alcuni interventi critici e che si traduce nella configurazione di strutture anche esteriormente simboliche. Forme compiute, ma che sono sempre fondate sull’attivazione interna di movimenti imperscrutabili; generate a partire da una esigenza di progettualità, che di un lavoro apparentemente più versato sul fronte “tecnologico” è la matrice e la traccia di una tensione, nonostante tutto, fortemente artigianale e materiale. Per sottolineare la dimensione progettuale che sottintende il fare di Radi, insieme con la sua qualità fortemente sensibile, sono di grande importanza anche nel suo caso i disegni e le carte. In essi si può riconoscere il momento “originario”, tanto in termini concreti, quanto in senso concettuale. Alcuni disegni hanno propriamente il carattere di un progetto che va ad anticipare, immaginandola e coordinandola, la conformazione definitiva delle opere, nella loro sagoma immediata e nel loro esito di luce-materia. Altri sono autonomi, e valgono a confermare la radice di un procedimento che si collega alle immagini e ai tratti di un inizio non detto o di uno stare oltre il dicibile, come, in modo esemplare, hanno saputo interpretare le carte realizzate nel corso del 2013, a seguito di una visita al ghetto di Roma, con la volontà di rendere percepibili, al di là dell’immediato, le sensazioni e le condizioni di una rappresentazione per lacerti, per intuizioni e – perché no – per metafore, dove emergono le tracce di parole, segni, luoghi da restituire al silenzio dell’interiorità. Anche in queste, come nei lavori compiuti con altri materiali, il nucleo essenziale va riconosciuto in una concezione di spazialità suggerita dalle luci interne, dalle forme liquide, dalle sagome nebulose che traspaiono dentro e oltre la pelle dell’involucro, che alludono a una condizione di spazio interiore. Aspirazione a un altrove di estensione indefinita, illimitata, incommensurabile, per quanto puntuale. Più che nelle stanze di qualche ambiente ipermoderno, le similitudini sono allora con visioni e simbologie cosmogoniche, dove spazio e tempo emergono e si immergono. |
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