Testo di: Testo di critico a cura di Giorgio Bonomi

La diaspora morbida.

La Sicilia contemporanea ha le sua fondamenta nella Magna Grecia, ma non solo; troppo spesso non si tiene conto di quanto quella terra debba alla cultura araba che, prima delle altre (normanna, spagnola eccetera), ivi si è radicata.
Queste culture non sono state episodi “imperialistici” bensì fondativi di quella cultura siciliana che è sempre stata di grandissimo spessore in tutte le sue manifestazioni, dalla pittura alla filosofia, dalla letteratura al teatro, dalla scultura al cinema. In più la Sicilia, sebbene sia un’isola, proprio grazie alle influenze sopra ricordate, ha sempre vissuto fuori dall’isolamento, tipico dei territori staccati dalle piattaforme continentali, arricchendosi invece di contatti, di scambi, di accoglienze e fortificando il suo evolversi nel tempo proprio con il costruire su basi solidissime, un po’ – se mi si passa la metafora – come i palazzi di Catania che si ergono da un sottosuolo lavico, durissimo e fortissimo.
Eppure molti degli artisti lì nati per lo più hanno dovuto subire quella “morbida diaspora dalla Sicilia”1. Non è un caso se è Milano la città metropolitana che solitamente gli artisti siciliani scelgono come nuova patria – da Verga a Vittorini, a Quasimodo e a molti artisti di cui qui si parla – pur senza rinnegare quella di origine cui, con mille fili anche sotterranei, restano legati nonostante il loro percorso completamente “internazionalizzato”, nel senso non solo del riconoscimento del loro valore in Europa ed Oltreoceano, ma anche in quello per cui l’arte, al di là di ogni possibile genius loci, è tale solo se riconoscibile e valida in ogni tempo e in ogni luogo. È stato giustamente affermato che “restare in Sicilia è la consapevolezza dell’isolamento volontario riferito al grosso problema della distanza geografica. Inoltre per controparte è la posizione di totale indifferenza di un popolo ancora rimbecillito e schiavo tradizionalmente della propria sicilianità e indifferente al mondo, neppure sospettato, che già da tempo vive negando tutto il passato. [… Allora molti giovani] reagiscono con una fuga più responsabile «(rivelatrice come sempre di una situazione)»2.
Se i più anziani dei nostri artisti, Carla Accardi, Pietro Consagra e Antonio Sanfilippo si “fermano” a Roma, e qui sarà anche Turi Simeti che poi si trasferirà a Milano, dove da giovani erano venuti Paolo Scirpa, Pino Pinelli, Emilio Isgrò, e arrivarono poi anche Ignazio Moncada dopo aver girato per l’Europa e l’Italia e lo stesso Consagra; Elio Marchegiani invece, nel suo “nomadismo”, non ha mai vissuto nella città meneghina anche se qui ha esposto numerose volte.
Senza forzature, mi pare che possiamo elencare tre elementi che stanno alla base dell’opera dei nostri artisti i quali, ovviamente ognuno con la sua poetica, la sua tecnica e il suo stile, rendono il loro accostamento non un mero fatto contingente: infatti questi artisti, tutti connotati da un’espressione concettuale ed astratta, esprimono un forte senso della spazialità e dell’analiticità, ed usano un segno particolare, l’arabesco.
Ebbene, alla ricerca delle origini, non posso non sottolineare il senso particolare dello spazio che la cultura e l’architettura greche hanno prodotto: dall’agorà, al teatro, al tempio; e nemmeno posso tacere il fatto che la cultura greca, la sua scienza e la sua filosofia, riprese e/o sviluppate da quelle arabe, si siano molto concentrate sull’analiticità – “analitici” si chiamano due parti dell’Organon di Aristotele, “analisi” è anche quella “matematica” eccetera –; infine rammento che l’arabesco, come dice il nome stesso, è di origine araba.
Ogni uomo porta impresso nel suo deposito visivo tutto ciò che, consciamente o inconsciamente, ha veduto o semplicemente percepito, così gli artisti, per esempio, americani hanno nelle loro radici un’idea di spazio immenso come sono i loro territori oppure Raffaello aveva nel suo patrimonio di immagini le colline umbro-marchigiane, quindi nulla di più naturale che i nostri artisti abbiano introiettato quegli spazi siciliani a volte “desertici” ma soprattutto caratterizzati da una continua “inondazione” di luce, per cui si potrebbe dire che in Sicilia a creare lo spazio è soprattutto la luce, e non solo quella solare ma anche quella che riverbera dal mare, dalle spiagge, dai “giardini” (agrumeti) e da tanti altri fattori.
Ed ancora, sembra quasi che le opere di questi artisti “assorbano” profondamente la luce che poi è modulata nelle varie cromie, plurime o singole, più che “emettano” luce, con l’eccezione di Scirpa nei cui lavori la luminosità è “materiale”, dato che l’artista lavora con i neon; mentre nelle opere di Accardi, Consagra e Sanfilippo troviamo un gioco di chiari e di scuri già nelle declinazioni dei segni e delle forme, ma anche, nei lavori successivi dell’Accardi, con le trasparenze (sicofoil); così Isgrò trova una spazialità “lineare” con la “cancellatura” che provoca anche un ritmo di luce e di buio, e Simeti con le sue estroflessioni costruisce, al di qua della tela, spazialità e ombre che dialogano con la monocromia della superficie. Anche Marchegiani nelle sue “grammature di colore” realizza costruzioni “primarie”, una sorta di pareti intonacate, impreziosite dagli slittamenti di colore sempre delicati e, direi, lirici. Infine, in Moncada lo spazio è quello delle superfici su cui accadono gli eventi riccamente cromatici – verrebbe da dire: come i colori intensi e plurimi della Sicilia –; in Pinelli invece la spazialità è più complessa, realizzandosi con una “collaborazione” imprescindibile con il muro su cui si “disseminano” le masse di colore, come se fossero “esplose” da un quadro intero, compatto. Si tratta di una disseminazione mai caotica ma sempre articolata ora geometricamente ora con allestimenti più elaborati – e, a questo proposito, non dimentichiamo anche quell’altra grandissima sedimentazione storico-culturale della Sicilia, il Barocco; un Barocco certamente ricco e suntuoso ma mai ridondante come quello, ad esempio, romano.
Se poi consideriamo la seconda categoria che mi pare caratterizzi i Nostri, vediamo come l’analisi sia un altro elemento comune. Nei più “anziani” – Accardi, Consagra, Sanfilippo – appare come sia forte la ricerca di un segno alfabetico nuovo che va a costruire una sorta di “immagine” in cui le “lettere” si aggrumano, si dividono, si scandiscono ritmicamente; mentre Isgrò fa un’operazione inversa cioè cancella le parole, sovrapponendo il codice artistico/visivo su quello verbale. Moncada, che guarda al Giacomo Balla divisionista/futurista, più che la luce ama analizzare e rappresentare, con un codice astratto, il “movimento”, vuoi del “vento” vuoi della “danza”. Scirpa, invece, crea degli assemblaggi percettivi, delle accumulazioni di segni, tutti realizzati con neon colorati, quasi a ridurre dei solidi in elementi di geometria piana – come ad evidenziare le linee perimetrali delle loro superfici – che poi, riassemblati, creano a loro volta l’immagine, lo “scheletro” di un cubo, di un parallelepipedo o, addirittura, di una specie di “tunnel” infinito. Con Marchegiani e, ancor di più, con Pinelli siamo nella vera e propria “arte analitica”, quella affermatasi negli anni ’70 con le teorizzazioni di vari critici dei quali, senza dubbio, il primo e il più accreditato fu Filiberto Menna. Il primo, con le “grammature di colore”, già nelle titolazioni evidenziava un elemento di analisi (“gramma” in greco antico era la “lettera” dell’alfabeto, la scrittura) e con le “gomme” costruiva sulla parete elementari strutture, a scacchiera, a file parallele di rettangoli e così via, entrando nella corrente della Pittura Analitica in modo, direi, tangenziale. Pinelli è stato, e lo ha sempre rivendicato, “pittore analitico” con una sua caratteristica personalissima e originale: la disseminazione3, per la quale elementi geometrici o, in certi periodi, scaglie frattali tridimensionali vanno a collocarsi, a disseminarsi, sulla parete, sempre con un ordine che è logico ed estetico al contempo.
Infine l’arabesco che, come dice Friedrich Schlegel, “è la forma più antica e originaria della fantasia umana”4, è già presente nell’arte degli Sciti nel II Millennio a. C. e lo troviamo poi in tutti i tempi e in tutti i luoghi come segno riconoscibile, ma anche come “forma originaria perché contiene ogni forma possibile”5. Orbene, se i segni dell’Accardi e di Sanfilippo, o le sculture e i disegni di Consagra, oppure le disseminazioni di Pinelli hanno nella loro stessa struttura un nesso evidente con l’arabesco; in Isgrò lo possiamo rintracciare quando l’immagine da cancellare ha una certa forma, come le mappe delle stelle (1970) o un planetario (2008), o quando cancella con le “formiche” (2009); in Simeti lo scorgiamo nei movimenti delle estroflessioni dei suoi elementi rotondi, mentre in Scirpa nelle spirali di luci al neon; ed anche l’“astratto” Moncada dal 1989 arricchisce le sue composizioni non solo di colori ma anche di segni che sono dei veri e propri “arabeschi”. Infine è da dire che Marchegiani è forse l’artista, tra quelli di cui stiamo parlando, che meno si è servito di questo segno, se non in parte nelle opere giovanili degli anni ’50 e ’60.
Dunque, in conclusione, possiamo parlare di “sicilianità” nel lavoro dei nostri artisti? Certamente no, se con questa parola indichiamo un “localismo” vernacolare, superato non solo dalla globalizzazione degli ultimi decenni, ma già nei secoli precedenti dalla cultura “vera”, se la cultura greca, quella araba, la normanna e, poi, quella italiana hanno offerto all’umanità prodotti che reggono ogni confronto con lo spazio e con il tempo. Pur tuttavia, come qualche cosa degli avi si conserva nel codice genetico di ogni essere vivente, così anche gli artisti, e naturalmente anche quelli di cui qui si parla, mantengono sempre nel loro linguaggio, che certamente attraversa gli anni e i territori, qualcosa del loro primo patrimonio visivo, delle loro origini storiche e culturali, dell’atmosfera che li ha accolti, dal primo vagito alla loro “dolce diaspora”.


1Achille Bonito Oliva, Il sublime inquieto, in I percorsi del sublime, catalogo della mostra, Palermo, Parco di Palazzo d'Orléans e Albergo delle Povere, 15 maggio – 15 luglio 1098, Edizioni Mazzotta, Milano 1998, p. 11.
2Nicolò D'Alessandro, Situazioni della pittura in Sicilia (1940/1970), Celebes Editore, Trapani, 1975, p. 74.
3Su questo argomento, mi permetto di rinviare al mio La disseminazione. Esplosione, frammentazione e dislocazione nell'arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2009 e di ricordare che “disseminazione” nel greco antico ha la stessa derivazione di “diaspora” (dal verbo “diasperéin” = “disseminare”), entrambi concetti che, non a caso, si addicono a Pinelli.
4F. Schlegel, Dialogo sulla poesia, ed. or.. 1800, in F. Schlegel, Frammenti critici e scritti estetici, tr. it. Vittorio Santoli, ed. Sansoni, Firenze 1967, p. 198.
5Franco Rella, Limina, ed. Feltrinelli, Milano 1987, p. 21.

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